sabato 14 luglio 2012

Considerazioni libere (291): a proposito di concertazione...

Non so cosa stesse facendo Monti nel '93, non voglio nemmeno prendermi la briga di cercare notizie nella rete, certamente era già un professore e probabilmente faceva analisi, preparava dossier, dava consigli, forse auspicava già quella svolta autoritaria di cui sarebbe stato protagonista - con la complicità di Napolitano - vent'anni dopo. Io il '93 me lo ricordo bene; studiavo all'università, ma la cosa che mi impegnava di più era la politica: ero iscritto al Pds e facevo l'assessore nel mio piccolo Comune, in provincia di Bologna. Ho l'impressione che la grande maggioranza dei miei sparuti e pazienti lettori siano miei coetanei e quindi rischio di ricordare fatti che vi sono noti, che anche voi - come me - avete vissuto, ma senza riandare a quelle vicende mi sembra molto difficile capire le polemiche di oggi. 
Nella primavera del '93 successe di tutto, i fatti si susseguivano in maniera caotica ed è sempre difficile capire cosa sta succedendo, mentre lo stai vivendo, specialmente quando tutto va così in fretta. Le inchieste giudiziarie procedevano senza tregua, in ogni parte d'Italia, a Milano in particolare si fece luce su quella che nella retorica giornalistica venne chiamata la "madre di tutte le tangenti", ossia il caso Enimont, mentre nelle procure del mezzogiorno si mettevano a nudo i rapporti tra politici e criminalità organizzata, così in quelle settimane ricevettero alcuni avvisi di garanzia sia Craxi che Andreotti. Si dimettevano uno dopo l'altro i segretari dei partiti di maggioranza - c'era ancora il pentapartito - e i ministri del governo Amato, il sistema si stava sgretolando con una rapidità a cui non eravamo pronti. Venivano arrestati imprenditori, piccoli e grandi, e importanti manager pubblici. A marzo Amato propose un decreto per depenalizzare il reato di finanziamento illecito ai partiti, con valore retroattivo; era un tentativo, comprensibile nell'ottica dell'allora presidente del consiglio, di uscire da quella situazione. Fu un'operazione suicida. Scalfaro non firmò il decreto e di fatto il governo, che non poteva più contare su una base parlamentare, fu sfiduciato. Negli stessi giorni di marzo si tenne il referendum sull'abolizione del sistema proporzionale per il senato: fu, comprensibilmente, un successo dei referendari, a quel punto il parlamento, votato con un sistema elettorale inviso alla stragrande maggioranza dei cittadini, era sempre più screditato. In quelle settimane di primavera di fatto finì la cosiddetta "prima repubblica". La fine nel giro di pochi mesi di un equilibrio durato per oltre cinquant'anni provocò scosse anche negli altri "poteri" italiani, specialmente quelli occulti che erano vissuti, prosperando, all'ombra del potere visibile. La mafia aveva fatto sentire tutta la sua forza solo un anno prima con le stragi di Capaci e di via D'Amelio, ma ora tornò in campo, in una pericolosa alleanza con i settori deviati dei servizi e con altre reti occulte. Il 14 maggio scoppiò un'autobomba in via Fauro a Roma, senza fare morti; l'attentato sembrava diretto contro Maurizio Costanzo, un personaggio che seppure si era rifatto una notevole verginità - verginità che tutt'ora resiste - aveva avuto trascorsi non democraticamente limpidi. Il 27 maggio ci fu la strage in via dei Georgofili a Firenze, in cui morirono cinque persone. Nella notte tra il 27 e il 28 luglio ci fu la strage in via  Palestro a Milano - altri cinque morti - e scoppiarono le bombe a san Giovanni in Laterano e a san Giorgio al Velabro, nel centro di Roma. Questa è un pezzo della nostra storia recente che purtroppo non è mai stato chiarito - e i cui strascichi polemici continuano anche oggi - e questa mancanza di chiarezza segnerà, purtroppo negativamente, la vicenda, anche storica, del governo Ciampi. Non si seppero affrontare queste forze oscure, che si riorganizzarono e che trovarono rapidamente una nuova copertura politica, ma questa è un'altra storia.
Intanto era diventato presidente del consiglio Carlo Azeglio Ciampi, il suo governo era solo nominalmente di espressione parlamentare, di fatto era un esecutivo di emergenza, voluto dal Presidente della Repubblica: una situazione analoga a quella che stiamo vivendo in questi mesi. La situazione finanziaria del paese era disastrosa: per evitare il fallimento dello stato il governo Amato nel luglio del '92 aveva fatto un prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti bancari, a settembre decise la svalutazione della lira e in autunno varò una manovra finanziaria da 93.000 miliardi, fatta di tagli di spesa e crescita delle tasse, una manovra contro cui andammo più volte in piazza a manifestare. Spero di aver reso l'idea - a chi per ragioni anagrafiche non c'era o a chi si è dimenticato - di cosa era l'Italia nel '93, quando divenne presidente del consiglio Ciampi. 
Il primo atto politicamente significativo di quel governo - ministro del lavoro era Gino Giugni e ministro della funzione pubblica era Sabino Cassese - fu l'avvio di un tavolo tra le forse sociali, è la famosa concertazione di cui ora si parla a sproposito e che viene definita l'inizio dei mali italiani. Al di là del merito dell'accordo, è significativo il metodo: un governo che non era stato eletto, non aveva base parlamentare e quindi non aveva riconoscimento politico, per sanare in qualche modo quel vulnus democratico che si era prodotto, decise di cercare una legittimazione in un accordo che coinvolgesse tutti gli attori sociali, compresa la più grande confederazione sindacale, la Cgil, allora guidata da quell'uomo acuto che era Bruno Trentin. Anche i più scettici, non potranno negare l'evidenza dell'analogia con quello che è successo in questi mesi del governo Monti. L'accordo che fu sottoscritto il 3 luglio, ma poi definitivamente firmato il 23 - il giorno in cui si suicidò Raul Gardini (per ricordare come le storie in quei giorni si intrecciavano) - dopo una consultazione di massa tra i lavoratori, sanciva un nuovo sistema di relazioni industriali basato sulla concertazione fra le parti e una nuova politica dei redditi. Veniva riconosciuta l'esistenza di un doppio livello di contrattazione; ai contratti nazionali di categoria veniva attribuita la funzione principale di tutelare il valore reale dei salari, mentre a livello aziendale spettava il compito di redistribuire gli incrementi di produttività registrati in ogni azienda. Il tasso di inflazione veniva programmato dal governo e le parti sociali si impegnavano a comportamenti coerenti sulla dinamica salariale, sui prezzi al consumo, sulle tariffe. L'accordo, su cui pure ci furono critiche, riuscì a facilitare la moderazione salariale e le ristrutturazioni industriali, fece aumentare le imposte solo a carico di lavoratori autonomi e imprenditori e permise di tener sotto controllo i conti pubblici. Senza quell'accordo - come senza la "cura da cavallo" imposta da Amato - l'Italia non avrebbe superato quella crisi economica e non sarebbe mai entrata nel sistema della moneta unica europea, permettendo quindi all'attuale presidente di pavoneggiarsi nelle più svariate sedi internazionali. A cavallo tra il '93 e il '94, con un'economia in recessione, scadevano i contratti di 11 milioni di lavoratori, di cui 3 milioni del pubblico impiego: fu il test dell'accordo del 1993. Le trattative furono rapide, senza episodi conflittuali, e registrarono una crescita del 7% delle retribuzioni; anche a causa del miglioramento del clima nel paese il biennio 1994-95 ha registrato una riduzione degli scioperi e del numero delle ore utilizzate per agitazioni sindacali. Anche grazie alla svalutazione della lira, per tre anni l'industria italiana crebbe, aumentarono le esportazioni e calò l'inflazione. Quell'accordo fu insieme una proposta di politica economica e di politica industriale, una costruzione per molti versi inedita della politica dei redditi, un sistema di regole e procedure contrattuali. L'accordo definiva l'esigenza di operare per lo sviluppo, la ricerca e l'innovazione, verso una politica di infrastrutture materiali e immateriali che erano richiamate dal Libro Bianco di Delors. Mancò questa spinta agli investimenti, anche perché al governo Ciampi seguì, con il ristabilirsi della normale dialettica democratica, il primo governo Berlusconi, con la storia che sappiamo. L'idea della concertazione fu sostituita da quella del conflitto permanente delle parte sociali: da una parte Confindustria, spalleggiata dal governo, e dall'altra la Cgil, con le altre confederazioni a fare da sponda spesso a B. e al nuovo presidente degli industriali, Amato. Il problema non fu la concertazione, ma il fatto che quel metodo fu programmaticamente rigettato. 
Perché Monti non prediliga il metodo della concertazione per me è abbastanza chiaro e penso di averlo esplicitato anche in questa "considerazione" - la concertazione è un metodo tendenzialmente democratico e il professore ha qualche problema a cercare accordi con tesi che non siano le sue - ma - come noto - io non mi iscrivo nel partito dei sostenitori del professore, perché altri - che non siano la Cgil - non abbiano difeso quel metodo rimane per me un mistero insondabile, su cui ormai smetto di sbattere la testa. Faccio solo notare che qualcosa che somiglia molto alla concertazione è il sistema che ha permesso alla Germania di superare la crisi legata alla riunificazione e di assestarsi alla guida dell'Europa. Poi il problema non è solo di metodo, perché bisogna anche capire su cosa bisogna concertare, con quali obiettivi e utilizzando quali strumenti, ma al punto in cui siamo arrivati, ricominciare a usare questo metodo mi sembrerebbe già un gran passo avanti. Sono abbastanza sicuro che non succederà.

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